domenica 12 giugno 2011

I detriti spaziali (prima parte)

Il problema dei detriti spaziali è stato di vitale importanza sin dalle prime fasi dell’esplorazione dello spazio. Date le velocità – parecchi chilometri al secondo – in gioco, un impatto con una semplice vite potrebbe rivelarsi fatale per una navicella o per un astronauta al lavoro nello spazio. 
            La maggior parte dei detriti  fortunatamente ritorna sulla terra: a seconda dell’altezza e delle dimensioni questi possono bruciare completamente per attrito con l’atmosfera o tornare in pezzi sulla terra.  Di solito i primi stadi dei razzi cadono  nel mare o sulla terra  a seconda della base da cui vengono lanciati.  I razzi dello Shuttle ammarano nell’oceano Atlantico (ed i razzi laterali a combustibile solito, dopo un ammaraggio morbido grazie ai paracadute, vengono recuperati per essere riutilizzati), mentre i vettori  lanciati dalla base russa di Plesetsk, cadono nel mare di Barents.  I lanci  della Soyuz che portano l’equipaggio e le provviste sulla Stazione Spaziale Internazionale, vengono   effettuati dalla base di Baikonur, sita nel territorio del Kazakistan: in questo caso i razzi vengono lasciati cadere nel deserto a nord-est, dopo essersi assicurati che non vi siano persone che possano essere colpite. Talvolta però frammenti dei razzi possono anche cadere in prossimità di aree abitate, anche se sino ad ora non si sono registrati danni a persone.


            Un detrito che si trovi in orbita bassa, sino a 200 km di altezza rientra sulla terra in pochi giorni. Questo tempo sale fino a qualche anno per oggetti fino a 600 km, ed a parecchi decenni se l’orbita è più alta. A causare la caduta dei detriti è il  debolissimo strato di atmosfera, sufficiente a rallentare in maniera impercettibile ma continua tutti gli oggetti che la attraversano. La velocità di rientro sarà tanto maggiore quanto maggiore è il rapporto tra l’area e la  massa dei vari oggetti: in altre parole un razzo molto sottile e pesante impiegherà molto più tempo a cadere di un satellite frenato da grossi pannelli solari.
Anche la   Stazione Spaziale Internazionale, che si trova  ad un’orbita variabile tra i 330  ed i 400 chilometri  e necessita dunque di periodiche spinte da parte della navetta cargo Progress e dello Space Shuttle. Senza questo aiuto da terra essa  ritornerebbe al suolo analogamente a quanto avvenuto nel   2001 con la stazione  russa Mir. Infatti, dopo una vita di ben 15  anni, si decise di abbandonarla in favore della nuova Stazione Internazionale. La sua massa e complessità strutturale  (vari moduli attaccati tra loro) ha richiesto uno studio particolare per evitare che cadesse in aree abitate. Fu dunque deciso di effettuare una serie di frenate controllate che ne facessero decadere l’orbita in maniera che i rottami dei vari moduli ammarassero nell’Oceano Pacifico
I moduli della stazione spaziale Mir bruciano al rientro nell’atmosfera in prossimità delle isole Fiji.
(1. continua)

Nessun commento:

Posta un commento