giovedì 30 giugno 2011

Tè e funghi: aggiornamento sulla contaminazione del cibo in Giappone


Anche nel mese di giugno 2011 le coop giapponesi hanno fornito ai clienti una tabella delle contaminazioni dei cibi venduti. Tutti i prodotti risultano al di sotto dei livelli di guardia (2000 Bq/kg per verdure, 500 Bq/kg  per carne e uova, 200 Bq/l per latte e acqua. In questo  post precedente la tabella completa). Lo iodio è completamente sparito per il suo rapido tempo di decadimento ma rimangono tracce di Cesio (134 e 137). Rispetto al mese scorso, i valori maggiori sono stati rinvenuti nei funghi Shiitake. I funghi (come le alghe ed i bambù) assorbono una gran quantità di materiali pesanti e possono accumulare anche sostanze radioattive. I funghi di alcune zone dell'europa dell'est contengono ancora materiale radioattivo rilasciato al tempo dell'incidente di Chernobyl. Anche se non c'è alcun pericolo nel consumare questa rinomata pietanza, è comunque preferibile evitare di darla ai bambini. 

Dati della radioattività nel cibo a giugno 2011,  i funghi Shitake (indicato con l'asterisco)  sono quelli ad aver  una quantità maggiore di radiazione, per quanto sotto la soglia. 




Questo mese il volantino non riporta il tè di Shizuoka, ma dal link al Ministero della Salute  si accede ad una miniera di dati (putroppo in giapponese) sulla radiazione contenuta nel cibo delle prefetture nipponiche. Tra i vari documenti in pdf sono presenti anche le misure sul tè della regione di Shizuoka, riportato sotto.
I valori riguardano il tè in foglie ed in polvere: i valori più alti sono 74 Bq/kq per quello appena colto e 311 Bq/kg per quello essiccato. L'apparente maggiore radioattività nel tè in polvere è solo dovuta alla minore quantità d'acqua in esso contenuto: togliere l'acqua equivale ad aumentare la densità di materiale vegetale e dunque anche l'attività per chilogrammo. Per una teiera di circa 300 ml servono  circa 6 grammi di tè, bevendo sette teiere al giorno, per un totale di 2.1 litri, si è ingeriscono appena 13 Bq, una quantità talmente piccola da  risultare difficile a misurarsi con i più sofisticati strumenti. Anche ingerire un chilogrammo di tè in polvere non avrebbe nessun effetto sulla salute (ma non sulle tasche, dato che la qualità migliore dell'oro verde può costare decine o centinaia di euro all'etto).



Misure del cesio contenuto nel tè raccolto nella regione di Shizuoka. I valori sono sotto la soglia di guardia sia per il tè  appena colto che essiccato.




Tratto ed adattato dal libro "Come sopravvivere alla radioattività", Cooper 2011

mercoledì 29 giugno 2011

Due Lanci da Baikonur

Due video  di lanci cui ho avuto la fortuna di assistere dal cosmodromo spaziale di Baikonur, in Kazakistan.

Il primo, notturno è del cargo Progress,(Progress 20P, 21 dicembre 2005, ore 22:58 ora di Mosca).
La capsula era diretta verso la Stazione Spaziale Internazionale  con varie tonnellate di cargo e cibo. Tra le altre cose erano contenuti i dosimetri, le carte di memoria ed il materiale di schermatura dalla radiazione per l'esperimento ALTCRISS, precursore di ALTEA






Il secondo video è quello di Pamela, lo spettrometro magnetico lanciato cinque anni or sono dalla stessa rampa di lancio della Progress.


Alla fine di entrambi i video, con un po' di attenzione, si vede lo sgancio dei 4 razzi laterali (a circa 120 secondi dal lancio).
L'audio putroppo non rende l'idea del rombo potente e di bassa frequenza del momento del lancio.

martedì 28 giugno 2011

Rivelatori di Radiazione: 1) Il Contatore Geiger

L’uomo non è in grado di percepire la presenza di radiazione e deve ricorrere all'ausilio di strumenti che misurano la quantità di radioattività nell'ambiente. La precisione e la sensibilità dei rivelatori consente di registrare il singolo decadimento e la singola particella radioattiva: se da un lato questo permette un’accuratezza non possibile in molti altri campi scientifici, dall’altro ha spesso ingenerato confusione a causa della associazione radiazione-pericolo. 

I rivelatori  sono di vari tipi ma possono essere divisi in attivi (richiedono le batterie e dicono la radiazione istante per istante) e passivi (dosimetri che forniscono la dose accumulata in un certo periodo di tempo).  

Il tubo Geiger-Müller


Questo rivelatore prende il nome dai suo inventori Hans Wilhelm Geiger (1882-1945) e Walther Müller (1905-1979). E' il più semplice misuratore di radiazione attivo: consiste in un tubo in cui è sigillato del gas. Quando il tubo è portato ad alta tensione, gli elettroni ionizzati dal passaggio della particella producono una scarica elettrica che viene letta dai circuiti elettronici. Se il circuito è collegato ad un altoparlante questo emette il caratteristico ticchettio. Dal numero di conteggi in un certo tempo si ottiene la quantità di radiazione o dose in quel momento.

Tubo Geiger di fabbricazione russa. Al suo interno è contenuta una miscela di gas. Al centro si trova un filo conduttore che raccoglie gli elettroni prodotti dal passaggio della radiazione. Notate il materiale isolante (di colore rossiccio) posto ai due estremi del cilindro, necessario per isolare il polo positivo (le due estremità) da quello negativo (il corpo del cilindro)



Schema di un contatore Geiger (da wikipedia). La radiazione rilasciano elettroni che  producono un segnale elettrico quando toccano il filo anodico al centro del cilindro. 




Per produrre un segnale, la radiazione deve perciò attraversare il tubo metallico per raggiungere il gas contenuto all'interno. Dato che la radiazione alfa (nuclei di elio) è molto meno penetrante dei beta (elettroni) e dei gamma (fotoni), i Geiger risultano adatti per misurare raggi gamma, e sono solo debolmente efficaci ai beta e ciechi agli alfa. Per misurare le particelle alfa è necessario un contatore che abbia un’apertura speciale (di solito in mica)  per far sì che la radiazione non sia assorbita dal metallo. Nelle figure sono mostrati i due contatori Geiger in mio possesso. Uno è portatile, di fabbricazione russa, e l’altro è un residuato bellico dell'esercito della  Germania dell’Est. I due rivelatori sono molto affidabili e forniscono misure in accordo tra loro, anche se il secondo ha problemi a funzionare in condizioni di bassa radioattività ambientale. Rivelatori del genere sono acquistabili nei negozi specializzati o su internet per meno di 100 euro. 
Contatore portatile russo. La lettura è digitale. Il tubo Geiger è posto sul fianco destro della scatola. 

Contatore Geiger in dotazione all'esercito della'ex  Germania dell'Est.  Ci sono due tubi, uno all'interno del contenitore ed l'altro  all'estremità dell'asta, per misurare materiali pericolosi. La quantità di radiazione  per cui è studiato questo rivelatore è quella che si produrrebbe in caso di una guerra nucleare, ossia più di cento milioni di volte superiore a quello normale. E' comunque in grado di rivelare anche il fondo di radiazione ambientale.


Come effettuare le misure

Le letture effettuate dai contatori possono variare molto a seconda del luogo e del momento in cui si effettua la misura. Oltre a queste variazioni ambientali vi sono le fluttuazioni intrinseche dello strumento, legate alla probabilità di registrare i decadimenti radioattivi in un certo istante: ad ogni numero di conteggi (non della misura) è associato un errore statistico che è pari alla radice quadrata dei conteggi. Ad esempio, se ho 100 conteggi in un minuto (che per un ipotetico rivelatore corrispondono a 0.2microSv/h), l'errore della misura è +/- 10 conteggi (quindi tra 90 e 110) e la misura corrispondente varia tra (0.18 microSv/h e 0.22 microSv/h). Se si vuole essere sicuri della precisione della misura conviene effettuare più misure nello stesso punto e fare una media.
Questo tipo di rivelatori misura meglio la radiazione nell'aria, per cui è preferibile tenerlo in mano per avere una stima migliore della quantità di radiazione cui si è esposti. Nel caso delle misure ambientali in Giappone e soprattutto vicino a Fukushima, si usa un metro di altezza per verificare l'esposizione degli adulti e 50 cm per i bambini. Se si sospetta vi sia materiale radioattivo depositato al suolo lo si può lasciare per terra. Tra l'altro, comparando questi tre numeri si può capire se la radiazione sia maggiormente presente al suolo o nell'aria. Attenzione però a tener conto dell'errore associato:  se misuro 0.2+-0.02 microSv/h  al suolo, 0.15+-0.02 microSv/h a 50 cm d'altezza e 0.1+-0.02 microSv/h ad un metro si può ragionevolmente supporre che vi sia una maggior radioattività per terra. Misure  come 0.2+-0.02 microSv/h  al suolo, 0.19+-0.02 microSv/h a 50 cm d'altezza e 0.18+-0.02 microSv/h ci dicono che la radioattività è la stessa ovunque. 


lunedì 27 giugno 2011

Contaminazione dei cibi in Giappone

Una delle preoccupazioni correnti in Giappone  è se il cibo sia stato contaminato dal materiale radioattivo della centrale. 
Anche a Tokyo i supermercati ed i negozi di alimentari riportano la regione di provenienza e garantiscono la non pericolosità dei prodotti. Una delle coop ha pubblicato alla fine di maggio questo volantino in cui è riportato il contenuto di Cesio (134 e 137) e Iodio (131) nei cibi   e la loro provenienza.

I valori sono tutti inferiori a quelli di sicurezza. Anche se per gli adulti il governo giapponese tollera 2000 Bq/kg, preferirei assumere il valore per i bambini (e per l'acqua in Italia, ad esempio) di 100 Bq/kg (o meglio Bq/l per i liquidi). 
Le regioni più vicine siano maggiormente influenzate dalla ricaduta ed accumulo di materiale radioattivo (anche se l'andamento dei venti e le pioggie rendono casuali i depositi).   Il valore maggiore lo riporta il tè della regione di Shizuoka (a sud di Tokyo), con un valore di 72 Bq/kg il 16/5/2011. 
Questo valore non è allarmante, (anche se lo Yomiuri shinbun riporta valori sino a 3000 Bq/kg) dato che il tè viene consumato in piccole quantità e solo una parte si discioglie nell'acqua. 

Al momento, almeno a Tokyo, non vi è un impatto evidente sull'economia e sui consumi,ma  le martoriate regioni intorno alla centrale stanno subendo danni crescenti: un articolo del Japan Times riporta l'incremento dei suicidi anche tra gli agricoltori e gli allevatori che hanno perso tutto a causa della radiazione. 
E' difficile prevedere l'andamento che avrà la radioattività nei prossimi mesi: il cesio 137  ha un tempo di dimezzamento di 30 anni per cui avrà bisogno di tempo per uscire dal circolo, mentre lo iodio, che decade in 8 giorni è già sparito. 

‎Sarà quindi necessario del tempo affinché il materiale radioattivo sia smaltito ed eliminato: di recente,  all'interno del sistema di trattamento delle acque fognarie  di Tokyo,  è stato misurato nell'aria un valore di 2.7 microSv/ora. Si tratta di un dato alto ma non pericoloso e comunque  contenuto alla zona interna alle strutture che raccolgono e processano le acque di decine di km quadri in  in vasconi di poche decine di metri cubi.

Aggiunta del 27/6: Il Japan Times  ha pubblicato la tabella dei limiti posti alla radiazione nei vari paesi del mondo.

Come già accennato, lo iodio pare assente dai cibi, mentre il cesio è ancora presente. Akira Sugenoya, sindaco della città di Matsumoto, nella prefettura di Nagano (e medico che ha curato i malati di tiroide in Bielorussia dopo Chernobyl), concorda nella severità dei limiti posti, ma aggiunge che è preferibile evitare  che madri incinte e bambini sotto i 14 anni consumino cibo contaminato. 

mercoledì 22 giugno 2011

Il consumo energetico in Giappone

Lo spegnimento delle due centrali nucleari di  Fukushima, e quella di Hamaoka   ha ridotto di circa 10 GW (miliardi di W)  la capacità di produrre energia in Giappone. Dato che  i reattori non sono mai funzionanti tutti allo stesso tempo una potenza nominale di 10 GW e' probabilmente più realistica. Per confronto una lampadina ad incandescenza consuma 100 W, una latrice/lavastoviglie consuma tra i 500 ed i 1000 W, e 3kW (3000 W) rappresentano i consumi massimi dell'utenza nominale casalinga.
Potenza consumata ed erogata il 22 giugno (dati TEPCO). Le barre rappresentano la potenza consumata, la curva rosa il valore atteso e quella blu i consumi dell'anno scorso.  La tacca nera a 47.3 GW è la massima potenza disponibile.
Come si vede dal grafico in figura (c'è anche un link in inglese ma è spesso non aggiornato), la potenza massima erogabile è di 47 GW a fronte di circa 40 GW di consumo (60 GW nel 2010). La differenza tra le curve blu (consumi 2010)  e rosa (consumi 2011) mostra l'effetto delle misure di risparmio energetico.
Il governo mira a risparmiare almeno il 15% riducendo i consumi delle fabbriche, diradando la frequenza dei treni, spegnendo molte luci e soprattutto l'aria condizionata.  (anche se a giugno fa già più di 32 gradi nel laboratorio).   I laboratori di ricerca, le fabbriche ed alcuni negozi hanno seguito l’esempio esponendo cartelli che attestano gli sforzi fatti per ridurre i consumi. Qualunque sia la bontà di queste scelte, l’illuminazione ridotta delle stazioni e dei luoghi pubblici conferisce alla città un aspetto crepuscolare, sotto certi aspetti più affascinante di quello asettico offerto normalmente dall’eccesso di neon accesi. 


Foto della metropolitana di Tokyo: gli schermi mostrano come la compagnia abbia potuto ridurre i consumi del 20%. Tra gli accorgimenti c'e' quello di rimuovere una parte dei tubi a neon. 

Il paradosso maggiore viene posto dalle onnipresenti Jidōhanbaiki, macchinette distributrici di bibite che popolano ogni angolo di strada ed infestano le stazioni. Vi sono circa 5 milioni di macchinette, una per ogni due dozzine di giapponesi. Questi prodigi tecnologici – ciascuno in grado di fornire bibite gelate e bollenti – consumano complessivamente 3 GW di potenza, ossia quanto produceva tutta la centrale di Fukushima I prima dell’incidente. Quasi tutti i problemi di mancanza di corrente sarebbero dunque risolti semplicemente spegnendo queste macchine; uno sforzo è stato fatto in tal senso anche se ovviamente spegnerle tutte non è possibile, dato che in un anno incassano più 50 miliardi di euro. Anche se l’illuminazione interna delle macchine è stata spenta, il grosso dei consumi è dovuto al frigorifero per raffreddare le bevande… che è accanto allo scompartimento che serve le bevande bollenti. 

A complicare la situazione energetica del Giappone si aggiunge il fatto che il nord-est (Tokyo, Sendai, Sapporo…) dell’isola utilizza corrente a 50 Hz mentre il sud-ovest (Kyoto, Osaka, Nagoya) utilizza corrente a 60 Hz.. Questa differenza di frequenza risale alla fine del XIX secolo, quando nell’ovest furono acquistati primi generatori dalla statunitense General Electric e nell’est si preferì la tedesca AEG. Il voltaggio utilizzato nelle case non ha una grande importanza, in Europa usiamo 220 V mentre in America e Giappone 110 V. Quello che si paga è l’energia consumata (pari alla corrente per il voltaggio durante il tempo in cui teniamo acceso lo strumento): un computer consuma la stessa quantità di energia sia in america che in Europa (nel vecchio continente consuma meno corrente perché il voltaggio è più alto, negli USA è il contrario). E’ estremamente complicato convertire la corrente generata da una centrale a 50 Hz in una a 60 Hz o viceversa, pertanto la carenza di energia nell’est non può essere bilanciata facendo ricorso all’altra metà del Giappone.

Resta da capire se gli sforzi fatti basteranno per evitare ulteriori black-out programmati: quelli che hanno avuto luogo a marzo sono stati gestiti in maniera poco oculata, penalizzando solo alcune zone (che hanno avuto anche 10 sospensioni di corrente) a favore di altre (non solo il centro di Tokyo). 
Unica magra consolazione è stata una splendida visione di stelle e pianeti nel cielo notturno.

(adattato ed aggiornato dal libro sulla radioattività)


giovedì 16 giugno 2011

5 anni di Pamela in orbita

Oggi  ricorrono i primi cinque anni di PAMELA in orbita.
Il lancio è avvenuto  il 15 giugno 2006 dal cosmodromo di Bajkonur (Kazakistan), dalla  stessa rampa usata per il satellite  Sputnik e per il volo   di Yuri Gagarin.
PAMELA sulla rampa di lancio, la stessa da cui furono lanciati lo Sputnik e Yuri Gagarin, cosmodromo spaziale di Baikonur, Kazakistan (foto M.C.).


Lo strumento, del peso complessivo di 470 kg ed alto circa 1.3 m,   è   alloggiato nel satellite russo Resurs DK1 ed è composto di una serie di  rivelatori rivolti alla determinazione del   tipo  ed energia  dei raggi cosmici, (elettroni, protoni, nuclei), con particolare riguardo alla  componente di antimateria,  ad energie e  con  precisioni   sino ad ora mai raggiunte con misure dirette.
Sinistra: Il satellite russo  Resurs-DK1. E’ possibile vedere i pannelli solari in basso ed il lungo cilindro contenente gli apparati ottici per le osservazioni terrestri. PAMELA è posta nel contenitore pressurizzato nella sinistra della figura. La Terra è idealmente posta nell’alto della figura. Centro: Foto del Resurs-DK1 nelle fasi finali di integrazione a Baikonur (2006). Il contenitore pressurizzato è visibile nella sinistra della Figura. Destra: L’apparato PAMELA nelle fasi finali di integrazione nelle camere pulite di Roma Tor Vergata (2005). E’ possibile distinguere le tre strutture di scintillatori del tempo di volo (S1, S2, S3), utilizzati per la determinazione della velocità e carica delle particelle. Le anticoincidenze (AC) poste intorno all’apparato consentono di eliminare eventi non validi provenienti dai lati;  lo spettrometro magnetico (TRK) è collocato tra i due scintillatori S2 ed S3, mentre il calorimetro silicio tungsteno (CALO), lo scintillatore di coda (S4) ed il rivelatore di neutroni (ND) vengono utilizzati per determinare la natura (leptone o adrone) dell’evento, e la  sua energia (nel caso di elettroni/positroni).

Nel corso dei primi cinque anni di vita PAMELA ha fornito dati rivoluzionari per la fisica dei raggi cosmici, la componente di antimateria nello spazio e la ricerca indiretta di materia oscura. I risultati sono stati pubblicati su Nature, Science, Physical Review letters....
Buon compleanno PAMELA, e grazie di tutto!
Spettri del flusso delle componenti principali dei  raggi cosmici nell’intervallo accessibile a PAMELA. Sono dominati dai protoni e dai nuclei di elio (circa il 90% ed il 9%).   In caso di eruzioni solari il flusso può aumentare improvvisamente di vari ordini di grandezza (curva rossa: misure   PAMELA relative all’evento del 13 Dicembre 2006). Anche nella regione del Sud Atlantico il flusso di protoni intrappolati  è molto più alto di quello galattico. La componente negativa è composta prevalentemente  da elettroni  con l’antimateria (antiprotoni)  presente solo in piccole  quantità. 


lunedì 13 giugno 2011

Il fenomeno dei lampi di luce nello spazio (parte 1)

Durante il viaggio verso la Luna, l’equipaggio dell’Apollo 11 osservò – mentre la capsula di trovava al buio - degli strani lampi luminosi di varia foggia, dimensione e colore. Senza rendersene conto avevano stabilito un altro importante primato del volo spaziale, oltre a quello di giungere, di lì a pochi giorni, per la prima volta sul suolo lunare: erano stati i primi uomini a “vedere” con i propri occhi, senza l’ausilio di alcuno strumento, i nuclei atomici che fanno parte dei raggi cosmici.
I  raggi cosmici sono composti per circa il 90% da protoni e per il 9% da nuclei di elio. Del restante 1% fanno parte i nuclei più pesanti come il carbonio, l’azoto e l’ossigeno. I raggi cosmici possono avere varie origini: a più bassa energia domina il vento solare, costituito da protoni ed elettroni con velocità di centinaia di chilometri al secondo. Ad energie più elevate le particelle hanno velocità sempre più prossime a quella della luce: provengono dalla nostra galassia, dopo essere state accelerate in esplosioni di supernovae; le particelle a più alta energia hanno origine  extragalattica ed i loro meccanismi di accelerazione sono tuttora oggetto di discussione. Vi sono poi i raggi cosmici intrappolati dal campo magnetico nelle fasce di radiazione (o di Van Allen): si tratta di protoni in prossimità della Terra (vengono incontrati anche dallo Shuttle e dalla Stazione Spaziale) ed elettroni ad una maggiore distanza (circa sei raggi terrestri, ossia dove si trovano i satelliti in orbita geostazionaria).
Lo studio della composizione delle specie più rare dei raggi cosmici (ad esempio la componente di antimateria)   può fornire informazioni molto precise sia sulla struttura della nostra galassia che dell’Universo: per fare questo sono necessari strumenti di complessità sempre crescente. Tra questi strumenti possiamo però annoverare anche l’occhio dell’uomo che, attraverso l’osservazione di questi “Lampi di Luce” (o Light Flashes), è in grado di  mettere in evidenza fenomeni di interazione tra il corpo umano e la radiazione cosmica cui è soggetto. Il fenomeno era già stato previsto nel lontano 1952 1 (cinque anni prima del lancio del primo Sputnik russo) da un pioniere della ricerca della biologia delle radiazioni a terra e nello spazio: Cornelius Tobias. La sua ipotesi iniziale, infatti, era che i nuclei della radiazione cosmica potessero interagire con l’apparato visivo umano causando percezioni visive anomale (o fosfeni) di vario genere.  Questi lampi di Luce sono altamente soggettivi: vi sono astronauti particolarmente sensibili, in grado di osservare il fenomeno anche in presenza di luce ed alcuni che non hanno mai visto un Lampo di Luce. Sono stati osservati vari tipi di lampi, probabilmente legati ai diversi tipi di interazioni possibili: una singola striscia, più tracce contemporaneamente, una stella molto luminosa e così via. Tuttavia, quando  si cerca di identificare i meccanismi fisici alla base dell’interazione tra i raggi cosmici e l’apparato visivo sorgono molti problemi, legati alla necessità di correlare le osservazioni provenienti da un rivelatore di particelle di tipo elettronico con le sensazioni provate dagli astronauti. L’importanza di questi studi è legata  - tra l’altro - alla possibilità che i Lampi di Luce rappresentino la classica punta di un iceberg rappresentato da effetti neurofisiologici ben più complessi e nascosti.
Gli studi sistematici sui Lampi  di Luce ebbero inizio già nelle successive missioni lunari2 (Apollo 14-17, 1971-1972), proseguendo poi sullo Skylab (1974) e sull’Apollo-Soyuz (1975). A Terra furono affiancati anche da vari test su acceleratori di particelle 3 . Da questi esperimenti sono emersi come come più probabili tre tipi interazioni: ionizzazione diretta della retina o del nervo ottico; interazione nucleare di un protone che produce molte particelle secondarie, dando luogo ad uno stimolo complessivo; emissione di luce Cherenkov nel bulbo oculare degli astronauti. Dai dati ottenuti non fu tuttavia possibile escludere o confermare alcuna di queste tre ipotesi o mostrare il ruolo che hanno nello spazio.
Sileye-2 prima del lancio (1998): la scatola di alluminio (sulla sinistra) contiene il telescopio di silici, mentre la maschera (sulla destra) viene utilizzata per verificare l’adattamento al buio dell’astronauta.

 Gli studi sui Lampi di Luce sono poi ripresi  negli anni ’90 a bordo della stazione spaziale russa Mir con il programma Sileye. L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), in collaborazione con vari enti di ricerca (CNR) ed università italiane (Roma Tor Vergata, Firenze, Trieste) e straniere (KTH, Mephi), ha realizzato e posto sulla Mir due apparati che hanno effettuato misure di Lampi di Luce tra il 1995 ed il 2000. Altro obiettivo scientifico di questo esperimento – che si inserisce in un più ampio quadro di ricerca dell’INFN sui raggi cosmici nello spazio -  è la misura del  flusso di raggi cosmici e la dose assorbita dagli astronauti all’interno della stazione spaziale. Gli strumenti  utilizzati consistono  in un casco con annesso un rivelatore di particelle al silicio (da cui il nome da SILicon EYE, od Occhi di Silicio).  Il cosmonauta indossa il casco, si pone in condizioni di buio e preme un bottone ogniqualvolta osserva un Lampo di Luce; contemporaneamente si misura il tipo e l’energia di tutti i nuclei che attraversano il telescopio al silicio.


Il cosmonauta Sergei Avdeev con il rivelatore Sileye-2 poco prima di iniziare una sessione di osservazione di lampi di luce a bordo della Mir. Avdeev è stato a lungo il detentore del record di permanenza nello spazio su più missioni nello spazio. Il record fu battuto da Sergei Krikalev nel 2005.

Correlando queste informazioni,  ottenute  con la collaborazione di sei dei cosmonauti che hanno vissuto a bordo della Mir, è stato possibile mostrare4 per la prima volta la presenza nello spazio di almeno due cause distinte di Lampi di Luce. La prima è probabilmente dovuta alla ionizzazione diretta dei nuclei pesanti ed è infatti più frequente quando la stazione si trova alle alte latitudini, ove lo schermo del campo geomagnetico è minore ed il flusso di nuclei aumenta. La seconda componente è causata da interazioni nucleari di protoni nell’apparato visivo dell’astronauta. Secondo questo meccanismo un singolo protone ha una probabilità molto bassa di causare un Lampo di Luce: è solo quando la Mir attraversa la fascia interna di Van Allen, in cui il numero di protoni intrappolati può crescere sino a 10000 volte, che viene notato un aumento del numero di Lampi osservati.
Dopo il rientro della Mir nell’atmosfera, le ricerche sono proseguite nel 2002 a bordo della Stazione Spaziale Internazionale nell’ambito della missione ASI Marco Polo. Qui è stato realizzato un terzo apparato, Sileye-3/Alteino, con lo scopo di effettuare le prime osservazione sistematiche di Lampi di Luce sulla Stazione Spaziale. Le prime misure sono state effettuare durante il volo  cosmonauta italiano Roberto Vittori: l’analisi dati è tuttora in corso. L’apparato è stato a bordo della Stazione Spaziale per circa 8 anni, prima di tornare sulla terra a bordo della Soyuz. Nel 2006 è stato affiancato e  sostituito da un apparato più moderno, Altea.  Si tratta di uno strumento multidisciplinare per lo studio dei raggi cosmici, dei Lampi di Luce, e degli effetti dell’ambiente spaziale  sulle funzioni visive e cerebrali degli astronauti.
Lo Space Shuttle attraccato alla Stazione Spaziale Mir.  
Orbita della Mir nel corso delle sessioni di osservazione dei Lampi di Luce. A ciascun triangolo corrisponde un lampo osservato. E’ possibile vedere l’incremento di Lampi di Luce ad alte latitudini e nella zona del sud atlantico, causato dalle due componenti di raggi cosmici galattici ed intrappolati rispettivamente.



Bibliografia
1. Tobias,  J. Aviat. Med., 23, 1952, 345.
2. Pinsky et al.,  Science, 183, 1974, 957.
3. Budinger T. F., et al., Nature, 239,  1972, 209.
4. Casolino et al., Nature, 422, 2003, 680.

domenica 12 giugno 2011

I detriti spaziali (seconda parte)

Il rischio maggiore per il volo spaziale viene però dalla enorme moltitudine dei piccoli detriti in orbita intorno alla terra: vi sono 11000 oggetti più grandi di 10 cm, centomila di dimensioni comprese tra 1 e 10 cm e milioni più piccoli di un centimetro.  La maggior parte di essi è posta in orbita bassa (300-600 km) ed in orbita geostazionaria (36.000 km), ove si trovano i satelliti televisivi e per telecomunicazione. Vi sono poi ben  70.000 oggetti di circa 2 cm in una fascia compresa tra 650 e 1000 km: questi sono probabilmente dovuti   a gocce congelate (ma non per questo meno pericolose) di  liquido di raffreddamento  dei reattori nucleari posti su vecchi satelliti russi RORSAT.



Dato il rischio legato  all’impatto di oggetti nello spazio con satelliti o la stazione spaziale, sia gli Stati Uniti che la Russia controllano  continuamente  oggetti grandi solo alcuni millimetri. Tuttavia è possibile tracciare e prevedere la traiettoria solo di quelli più grandi di 10 cm: in caso vi sia una  probabilità di impatto elevata la prassi è di modificare l’orbita della stazione per portarla in una zona di sicurezza. Anche l’assetto dello Shuttle in volo è volto a minimizzare il danno da un potenziale impatto di detriti: la navetta vola infatti con la chiglia verso l’alto e con la poppa “in avanti”, in maniera da esporre maggiormente le parti più schermate e pesanti.  In ogni caso impatti con  piccoli frammenti   si verificano continuamente: sono loro una delle cause del degrado dei pannelli solari , che vengono lentamente ma inesorabilmente danneggiati da corpuscoli poco più grandi di un granello di polvere. In passato si è anche verificato un impatto con uno dei finestrini dello Shuttle per fortuna senza gravi conseguenze visto che l’oggetto era abbastanza piccolo da essere fermato dal robusto vetro dell’oblò. Drammaticamente più devastante  è   stato l’impatto con la  una parte del rivestimento del serbatoio esterno dello Space Shuttle Columbia nella missione STS-107 del 2003.  Le vibrazioni del lancio fecero infatti staccare un segmento di gommapiuma facendogli urtare a più di 500 km/h la parte frontale dell’ala sinistra.   Le ali sono costituite di una fibra rinforzata di carbonio, particolarmente leggera ed in grado di sopportare le enormi temperature del rientro nell’atmosfera. Queste strutture sono tuttavia molto fragili in quanto non disegnate per sopportare grossi impatti meccanici come quello avvenuto al lancio. 

Anche se i tecnici osservarono l’impatto sull’ala ed il sistema di radar che traccia lo Shuttle nel corso della sua missione osservò il distacco di un frammento – che rientrò dopo due giorni nell’atmosfera - dalla navetta, la direzione del programma decise di non investigare la presenza di eventuali danni all’ala con telescopi da terra. Al momento del rientro il gas ionizzato provocato dall’attrito dello Shuttle con l’atmosfera fece fondere il supporto in alluminio causando la rottura dell’ala e la successiva distruzione della navetta, causando la perdita di tutto l’equipaggio. Il  Columbia si spezzò prima in tre grosse sezioni, la cabina frontale, la sezione centrale e quella di coda con i motori e poi si frammentò in una miriade di frammenti che si sparsero in una vasta area, seguendo la rotta di rientro.  I detriti furono poi recuperati in gran parte ed analizzati per risalire alle cause dell’incidente. Anche i risultati  degli esperimenti effettuati nelle   2 settimane di missione non andarono perduti e fecero sì che il sacrificio dell’equipaggio non fosse in vano.  Gli esperti concordano nell’affermare che il  problema dei detriti nello spazio è   attualmente sotto   controllo. Tuttavia il futuro non è così roseo: all’aumento del numero di frammenti c’è il rischio che si inneschi la sindrome di Kessler. Questo scienziato ha infatti ipotizzato uno scenario   in cui   in  una singola collisione  si produce      un gran numero di detriti  che   a loro volta colpiscono  altri oggetti generando una reazione a catena che riempie lo spazio di rottami, rendendo future missioni spaziali molto rischiose  o addirittura impossibili.

I detriti spaziali (prima parte)

Il problema dei detriti spaziali è stato di vitale importanza sin dalle prime fasi dell’esplorazione dello spazio. Date le velocità – parecchi chilometri al secondo – in gioco, un impatto con una semplice vite potrebbe rivelarsi fatale per una navicella o per un astronauta al lavoro nello spazio. 
            La maggior parte dei detriti  fortunatamente ritorna sulla terra: a seconda dell’altezza e delle dimensioni questi possono bruciare completamente per attrito con l’atmosfera o tornare in pezzi sulla terra.  Di solito i primi stadi dei razzi cadono  nel mare o sulla terra  a seconda della base da cui vengono lanciati.  I razzi dello Shuttle ammarano nell’oceano Atlantico (ed i razzi laterali a combustibile solito, dopo un ammaraggio morbido grazie ai paracadute, vengono recuperati per essere riutilizzati), mentre i vettori  lanciati dalla base russa di Plesetsk, cadono nel mare di Barents.  I lanci  della Soyuz che portano l’equipaggio e le provviste sulla Stazione Spaziale Internazionale, vengono   effettuati dalla base di Baikonur, sita nel territorio del Kazakistan: in questo caso i razzi vengono lasciati cadere nel deserto a nord-est, dopo essersi assicurati che non vi siano persone che possano essere colpite. Talvolta però frammenti dei razzi possono anche cadere in prossimità di aree abitate, anche se sino ad ora non si sono registrati danni a persone.


            Un detrito che si trovi in orbita bassa, sino a 200 km di altezza rientra sulla terra in pochi giorni. Questo tempo sale fino a qualche anno per oggetti fino a 600 km, ed a parecchi decenni se l’orbita è più alta. A causare la caduta dei detriti è il  debolissimo strato di atmosfera, sufficiente a rallentare in maniera impercettibile ma continua tutti gli oggetti che la attraversano. La velocità di rientro sarà tanto maggiore quanto maggiore è il rapporto tra l’area e la  massa dei vari oggetti: in altre parole un razzo molto sottile e pesante impiegherà molto più tempo a cadere di un satellite frenato da grossi pannelli solari.
Anche la   Stazione Spaziale Internazionale, che si trova  ad un’orbita variabile tra i 330  ed i 400 chilometri  e necessita dunque di periodiche spinte da parte della navetta cargo Progress e dello Space Shuttle. Senza questo aiuto da terra essa  ritornerebbe al suolo analogamente a quanto avvenuto nel   2001 con la stazione  russa Mir. Infatti, dopo una vita di ben 15  anni, si decise di abbandonarla in favore della nuova Stazione Internazionale. La sua massa e complessità strutturale  (vari moduli attaccati tra loro) ha richiesto uno studio particolare per evitare che cadesse in aree abitate. Fu dunque deciso di effettuare una serie di frenate controllate che ne facessero decadere l’orbita in maniera che i rottami dei vari moduli ammarassero nell’Oceano Pacifico
I moduli della stazione spaziale Mir bruciano al rientro nell’atmosfera in prossimità delle isole Fiji.
(1. continua)

martedì 7 giugno 2011

Effetti Biologici della radiazione (cenni)

Gli effetti della radiazione ionizzante vengono classificati secondo due raggruppamenti: deterministici e stocastici.
I primi si manifestano sempre se esposti ad alte dosi di radiazione mentre i secondi sono tipici di basse dosi assorbite.
Gli effetti stocastici sono casuali e vengono evidenziati solo analizzando – comparativamente rispetto alla generalità della popolazione –
un consistente numero di pazienti o di persone esposte anche a dosi basse ma per lunghi periodi di tempo.
Nei soggetti esposti ad un’alta dose di radiazioni (maggiore di 0.25 Sv) i sintomi – spossatezza, mal di testa nausea e vomito, a cui ci si riferisce con il più comune “malessere da radiazione” – si manifestano con certezza nelle prime ore dopo l’irraggiamento. Anche se in meno di 24 ore ci si sente di nuovo meglio e non si avverte nessun disagio, i sintomi ricompaiono dopo alcuni giorni nella forma di febbri, emorragie, sangue nel vomito e nelle feci.

Ad 1 Sv la fase di quiete nel soggetto esposto è più breve e talvolta assente ma – se sottoposto a cura – si hanno buone probabilità di guarigione.
Sopra 4 Sv si ha il 50% di possibilità di morte, raggiungendo il 100% sopra i 7 Sv. Se il paziente è sottoposto a cure la probabilità di sopravvivenza aumenta: dopo circa 8 settimane di terapia ha una buona possibilità di ricupero.
A Fukushima il 24 marzo (dati IAEA) ci sono stati 17 lavoratori esposti a più di 0.1 Sv (tra questi sono inclusi i due tecnici esposti a 2-3 Sv alle gambe per essere venuti a contatto con l’acqua radioattiva) e tutti sono stati ricoverati in ospedale per accertamenti e cure.
Se gli effetti deterministici sono di gravità proporzionale alla radiazione ma esibiscono una soglia sotto la quale non si manifestano, si ritiene che gli effetti stocastici non abbiano una netta linea di demarcazione e possono colpire dopo vari anni. Solitamente si manifestano sotto forma di tumore ma non appaiono in tutti i soggetti esposti.
Nel caso di esposizione di un gran numero di persone è possibile determinare l’aumento dell’incidenza dei tumori e metterli in relazione con la dose cui sono stati esposti.
Un’esposizione maggiore implica un rischio maggiore di contrarre tumore. Per dare un’idea, la probabilità di morte per incidenti domestici o
in auto è pari a quella associata ad una dose di 0.01 Sv (10 mSv), ossia una su 10.000 (0.01%).
A dosi più basse è ancora dibattuto se la radiazione abbia degli effetti sulla salute e quali siano.
Gli studi epidemiologici mostrano come alcuni tumori come la leucemia, il tumore al seno, ai polmoni e alla tiroide siano più facilmente indotti
dalla radiazione, mentre altri (pancreas, testicolo, prostata) non aumentino nei soggetti esposti.
I danni al DNA dei soggetti esposti si possono trasmettere alla generazione successiva sotto forma di mutazioni genetiche. Il numero di mutazioni è trascurabile per basse esposizioni, fino a 10 mSv, circa l’1% di quelle che avvengono per cause naturali, ma aumenta della metà nel caso di esposizioni di 0.5 Sv.

Estratto dal libro "Come sopravvivere alla radioattività" http://www.bandashop.it/product.php?id=127