Durante il viaggio verso la Luna, l’equipaggio dell’Apollo 11 osservò – mentre la capsula di trovava al buio - degli strani lampi luminosi di varia foggia, dimensione e colore. Senza rendersene conto avevano stabilito un altro importante primato del volo spaziale, oltre a quello di giungere, di lì a pochi giorni, per la prima volta sul suolo lunare: erano stati i primi uomini a “vedere” con i propri occhi, senza l’ausilio di alcuno strumento, i nuclei atomici che fanno parte dei raggi cosmici.
I raggi cosmici sono composti per circa il 90% da protoni e per il 9% da nuclei di elio. Del restante 1% fanno parte i nuclei più pesanti come il carbonio, l’azoto e l’ossigeno. I raggi cosmici possono avere varie origini: a più bassa energia domina il vento solare, costituito da protoni ed elettroni con velocità di centinaia di chilometri al secondo. Ad energie più elevate le particelle hanno velocità sempre più prossime a quella della luce: provengono dalla nostra galassia, dopo essere state accelerate in esplosioni di supernovae; le particelle a più alta energia hanno origine extragalattica ed i loro meccanismi di accelerazione sono tuttora oggetto di discussione. Vi sono poi i raggi cosmici intrappolati dal campo magnetico nelle fasce di radiazione (o di Van Allen): si tratta di protoni in prossimità della Terra (vengono incontrati anche dallo Shuttle e dalla Stazione Spaziale) ed elettroni ad una maggiore distanza (circa sei raggi terrestri, ossia dove si trovano i satelliti in orbita geostazionaria).
Lo studio della composizione delle specie più rare dei raggi cosmici (ad esempio la componente di antimateria) può fornire informazioni molto precise sia sulla struttura della nostra galassia che dell’Universo: per fare questo sono necessari strumenti di complessità sempre crescente. Tra questi strumenti possiamo però annoverare anche l’occhio dell’uomo che, attraverso l’osservazione di questi “Lampi di Luce” (o
Light Flashes), è in grado di mettere in evidenza fenomeni di interazione tra il corpo umano e la radiazione cosmica cui è soggetto. Il fenomeno era già stato previsto nel lontano 1952
1 (cinque anni prima del lancio del primo Sputnik russo) da un pioniere della ricerca della biologia delle radiazioni a terra e nello spazio: Cornelius Tobias. La sua ipotesi iniziale, infatti, era che i nuclei della radiazione cosmica potessero interagire con l’apparato visivo umano causando percezioni visive anomale (o fosfeni) di vario genere. Questi lampi di Luce sono altamente soggettivi: vi sono astronauti particolarmente sensibili, in grado di osservare il fenomeno anche in presenza di luce ed alcuni che non hanno mai visto un Lampo di Luce. Sono stati osservati vari tipi di lampi, probabilmente legati ai diversi tipi di interazioni possibili: una singola striscia, più tracce contemporaneamente, una stella molto luminosa e così via. Tuttavia, quando si cerca di identificare i meccanismi fisici alla base dell’interazione tra i raggi cosmici e l’apparato visivo sorgono molti problemi, legati alla necessità di correlare le osservazioni provenienti da un rivelatore di particelle di tipo elettronico con le sensazioni provate dagli astronauti. L’importanza di questi studi è legata - tra l’altro - alla possibilità che i Lampi di Luce rappresentino la classica punta di un iceberg rappresentato da effetti neurofisiologici ben più complessi e nascosti.
Gli studi sistematici sui Lampi di Luce ebbero inizio già nelle successive missioni lunari
2 (Apollo 14-17, 1971-1972), proseguendo poi sullo Skylab (1974) e sull’Apollo-Soyuz (1975). A Terra furono affiancati anche da vari test su acceleratori di particelle
3 . Da questi esperimenti sono emersi come come più probabili tre tipi interazioni: ionizzazione diretta della retina o del nervo ottico; interazione nucleare di un protone che produce molte particelle secondarie, dando luogo ad uno stimolo complessivo; emissione di luce Cherenkov nel bulbo oculare degli astronauti. Dai dati ottenuti non fu tuttavia possibile escludere o confermare alcuna di queste tre ipotesi o mostrare il ruolo che hanno nello spazio.
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Sileye-2 prima del lancio (1998): la scatola di alluminio (sulla sinistra) contiene il telescopio di silici, mentre la maschera (sulla destra) viene utilizzata per verificare l’adattamento al buio dell’astronauta. |
Gli studi sui Lampi di Luce sono poi ripresi negli anni ’90 a bordo della stazione spaziale russa Mir con il programma Sileye. L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), in collaborazione con vari enti di ricerca (CNR) ed università italiane (Roma Tor Vergata, Firenze, Trieste) e straniere (KTH, Mephi), ha realizzato e posto sulla Mir due apparati che hanno effettuato misure di Lampi di Luce tra il 1995 ed il 2000. Altro obiettivo scientifico di questo esperimento – che si inserisce in un più ampio quadro di ricerca dell’INFN sui raggi cosmici nello spazio - è la misura del flusso di raggi cosmici e la dose assorbita dagli astronauti all’interno della stazione spaziale. Gli strumenti utilizzati consistono in un casco con annesso un rivelatore di particelle al silicio (da cui il nome da SILicon EYE, od Occhi di Silicio). Il cosmonauta indossa il casco, si pone in condizioni di buio e preme un bottone ogniqualvolta osserva un Lampo di Luce; contemporaneamente si misura il tipo e l’energia di tutti i nuclei che attraversano il telescopio al silicio.
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Il cosmonauta Sergei Avdeev con il rivelatore Sileye-2 poco prima di iniziare una sessione di osservazione di lampi di luce a bordo della Mir. Avdeev è stato a lungo il detentore del record di permanenza nello spazio su più missioni nello spazio. Il record fu battuto da Sergei Krikalev nel 2005. |
Correlando queste informazioni, ottenute con la collaborazione di sei dei cosmonauti che hanno vissuto a bordo della Mir, è stato possibile mostrare
4 per la prima volta la presenza nello spazio di almeno due cause distinte di Lampi di Luce. La prima è probabilmente dovuta alla ionizzazione diretta dei nuclei pesanti ed è infatti più frequente quando la stazione si trova alle alte latitudini, ove lo schermo del campo geomagnetico è minore ed il flusso di nuclei aumenta. La seconda componente è causata da interazioni nucleari di protoni nell’apparato visivo dell’astronauta. Secondo questo meccanismo un singolo protone ha una probabilità molto bassa di causare un Lampo di Luce: è solo quando la Mir attraversa la fascia interna di Van Allen, in cui il numero di protoni intrappolati può crescere sino a 10000 volte, che viene notato un aumento del numero di Lampi osservati.
Dopo il rientro della Mir nell’atmosfera, le ricerche sono proseguite nel 2002 a bordo della Stazione Spaziale Internazionale nell’ambito della missione ASI Marco Polo. Qui è stato realizzato un terzo apparato, Sileye-3/Alteino, con lo scopo di effettuare le prime osservazione sistematiche di Lampi di Luce sulla Stazione Spaziale. Le prime misure sono state effettuare durante il volo cosmonauta italiano Roberto Vittori: l’analisi dati è tuttora in corso. L’apparato è stato a bordo della Stazione Spaziale per circa 8 anni, prima di tornare sulla terra a bordo della Soyuz. Nel 2006 è stato affiancato e sostituito da un apparato più moderno,
Altea. Si tratta di uno strumento multidisciplinare per lo studio dei raggi cosmici, dei Lampi di Luce, e degli effetti dell’ambiente spaziale sulle funzioni visive e cerebrali degli astronauti.
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Lo Space Shuttle attraccato alla Stazione Spaziale Mir. | | |
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Orbita della Mir nel corso delle sessioni di osservazione dei Lampi di Luce. A ciascun triangolo corrisponde un lampo osservato. E’ possibile vedere l’incremento di Lampi di Luce ad alte latitudini e nella zona del sud atlantico, causato dalle due componenti di raggi cosmici galattici ed intrappolati rispettivamente. |
Bibliografia
1. Tobias,
J. Aviat. Med., 23, 1952, 345.
2. Pinsky et al.,
Science,
183, 1974, 957.
3. Budinger T. F., et al.,
Nature, 239, 1972, 209.
4. Casolino et al.,
Nature,
422, 2003, 680.